venerdì 24 giugno 2016

I segreti del sonno

Passiamo un terzo della vita dormendo. Ma dopo anni di ricerche non sappiamo ancora con esattezza perché.

Cheryl Dinges ha 29 anni, viene da St. Louis, ed è un sergente dell'esercito americano. Il suo lavoro è addestrare i soldati ai combattimenti corpo a corpo. Esperta di jujitsu, Dinges afferma di essere una delle poche donne dell'esercito abilitate al combattimento di secondo livello, che consiste, spiega, in un lungo addestramento al combattimento uno contro due.

Ma negli anni a venire il sergente Dinges potrebbe dover affrontare una battaglia ben più dura. La sua famiglia infatti è portatrice del gene dell'"insonnia familiare fatale", o Iff. Il sintomo principale di questa malattia è l'impossibilità di dormire. All'inizio si perde la capacità di schiacciare sonnellini, poi di dormire tutta la notte, infine di dormire del tutto. La sindrome di solito compare intorno ai 50 anni, dura all'incirca un anno, e, come indica il nome, finisce con la morte del paziente. Dinges ha rifiutato di sottoporsi al test per individuare il gene della malattia. "Avevo paura che, sapendo di averla, non mi sarei impegnata così tanto nella vita, che mi sarei arresa".

La Iff è una malattia terribile, resa ancora peggiore dal fatto che ne sappiamo molto poco. Dopo anni di studio, i ricercatori
sono arrivati a capire che nei pazienti affetti da Iff, proteine malformate chiamate prioni attaccano il talamo, una struttura posta all'interno del cervello, e che un talamo danneggiato interferisce con il sonno. Purtroppo i ricercatori ignorano perché avvenga e come impedirlo, o come alleviare i sintomi della malattia. Prima che si cominciasse a studiare la Iff, molti non sapevano neppure che il talamo fosse collegato ai meccanismi del sonno. La Iff è una malattia estremamente rara, nota solo in 40 famiglie nel mondo, ma ha qualcosa in comune con le forme meno gravi di insonnia che affliggono milioni di persone: è ancora un mistero.


Se non sappiamo perché non riusciamo a dormire, è anche perché ignoriamo la ragione per cui abbiamo bisogno di farlo. Sappiamo che se non dormiamo il sonno ci manca, e che per quanto cerchiamo di resistergli, alla fine ne siamo vinti. Sappiamo che da sette a nove ore dopo che ci arrendiamo siamo quasi tutti pronti a rialzarci dal letto e che, da 15 a 17 ore dopo, siamo di nuovo stanchi. Da mezzo secolo sappiamo anche che il nostro riposo si divide tra fasi di sonno a onde lente e fasi di cosiddetto sonno Rem (rapid eye movement), durante il quale il cervello è attivo come quando siamo svegli ma i nostri muscoli volontari sono paralizzati.

Sappiamo che tutti i mammiferi e i volatili dormono. Il delfino lo fa con metà del cervello sveglia, così può continuare a controllare il suo ambiente subacqueo, e quando i germani reali dormono in fila, i due individui alle estremità riescono a mantenere metà del cervello vigile, e un occhio aperto, per proteggersi dai predatori. Anche i pesci, i rettili e gli insetti praticano una forma di riposo.

Questa inattività ha un prezzo. Gli animali devono restare a lungo immobili, diventando facili prede. Che vantaggio offre quindi? "Se non ha alcuna funzione vitale", ha detto lo studioso Allan Rechtschaffen, "allora il sonno è il più grosso errore che l'evoluzione abbia mai fatto".

La teoria prevalente sul sonno è che sia necessario al cervello. Un'idea dettata dal buon senso: chi non si sente più lucido dopo una bella nottata di sonno? Il problema è supportare questa ipotesi con i dati. In che modo il sonno aiuta il cervello? La risposta può variare a seconda del tipo di sonno di cui si parla. Di recente, ad Harvard, una équipe guidata da Robert Stickgold ha sottoposto gli studenti a una serie di test, poi li ha fatti dormire un po' e li ha sottoposti a nuovi test: quelli che erano entrati nella fase Rem hanno dato risultati migliori nel riconoscimento delle strutture (ad esempio quelle grammaticali), mentre gli studenti entrati in una fase di sonno profondo andavano meglio nella memorizzazione.

Altri ricercatori hanno scoperto che nel sonno il cervello ripete lo stesso schema di firing neuronale (il meccanismo di trasmissione del segnale tra neuroni) di un soggetto appena sveglio, come se, nel sonno, il cervello cercasse di affidare alla memoria a lungo termine le cose apprese durante la veglia.
Queste ricerche fanno pensare che una funzione del sonno possa essere il consolidamento della memoria. Qualche anno fa Giulio Tononi, studioso del sonno dell'Università del Wisconsin a Madison, ha pubblicato un'interessante variazione di questa teoria: durante il sonno il cervello eliminerebbe le sinapsi e le connessioni ridondanti o non necessarie. Lo scopo del sonno potrebbe essere quindi quello di aiutarci a ricordare ciò che è importante e a dimenticare quello che non lo è.

È probabile che il sonno abbia anche funzioni fisiologiche: il fatto che i pazienti affetti da Iff non vivano mai a lungo è significativo. Cosa sia esattamente a ucciderli suscita molto interesse, benché ancora non si sappia. Muoiono direttamente per effetto della privazione del sonno? E se non è così, fino a che punto l'insonnia contribuisce a creare le condizioni che li uccidono? Alcuni ricercatori hanno scoperto che nei ratti la privazione del sonno rallenta la cicatrizzazione, mentre per altri il sonno aiuta a rinforzare il sistema immunitario e a combattere l'insorgere di malattie infettive. Ma i risultati non sono ancora definitivi.

In un celebre esperimento degli anni Ottanta, Rechtschaffen costrinse alcuni ratti a rimanere svegli nel suo laboratorio dell'Università di Chicago mettendoli su un disco ruotante sospeso sopra un recipiente pieno d'acqua. Appena i ratti si addormentavano, il disco si ribaltava facendoli cadere nell'acqua, e loro immediatamente si risvegliavano. Dopo circa due settimane di questo trattamento, i ratti erano tutti morti. Ma quando Rechtschaffen effettuò l'autopsia sulle cavie, non riuscì a trovare nulla che non andasse. Gli animali non presentavano organi danneggiati. Tutto faceva pensare che fossero morti per sfinimento, cioè per non aver più dormito. Neppure un ulteriore esperimento svolto nel 2002 con strumenti più sofisticati riuscì a individuare nei ratti "una chiara causa di morte".

Oggi in pensione dopo 50 anni di ricerca sul sonno, William Dement è uno degli scopritori della fase Rem nonché cofondatore dello Stanford Sleep Medicine Center. Gli chiedo perché dormiamo. "Per quanto ne so", risponde, "l'unica ragione scientificamente provata per cui abbiamo bisogno di dormire è che ci viene sonno".

Sfortunatamente, non è sempre vero il contrario: non sempre ci viene sonno quando abbiamo bisogno di dormire. Nel mondo sviluppato l'insonnia ha una diffusione epidemica. Sono da 50 a 75 milioni, quasi un quinto della popolazione, gli americani che accusano problemi di insonnia. In Italia a soffrirne sono 12-15 milioni (soprattutto donne), di cui 5-6 in forma grave, ovvero da compromettere le attività diurne, la salute e l'umore. Malgrado ciò, si fa davvero poco per comprendere le cause principali dell'insonnia. Gli studenti di medicina seguono giusto qualche ora di tirocinio sui disturbi del sonno, e alcuni neanche quelle.

I costi sociali ed economici derivanti dall'inadeguatezza del trattamento terapeutico dell'insonnia sono enormi. L'Institute of Medicine, un organismo nazionale indipendente di consulenza scientifica, stima che quasi il 20 per cento dei più gravi incidenti tra veicoli a motore sia stato causato dalla sonnolenza di un guidatore. Questo dato colloca il costo medico diretto del nostro debito collettivo di sonno sui dieci miliardi di dollari. Le perdite in termini di calo della produttività lavorativa sono ancora maggiori. E infine ci sono i costi più lievi: relazioni personali compromesse o fallite, opportunità di lavoro perse, e incapacità di godere dei piaceri della vita.

Se esistesse un problema sanitario di tali proporzioni legato a una funzione fisica meno  oscura e misteriosa, i governi gli avrebbero già dichiarato guerra. Purtroppo il National Institutes of Health riserva alla ricerca sul sonno un contributo di soli 230 milioni di dollari l'anno: una cifra paragonabile a quella che nel 2008 le aziende produttrici di due noti sonniferi avrebbero speso per una sola stagione di pubblicità televisiva.

Anche le forze armate spendono soldi nella ricerca sul sonno, ma il loro principale interesse è quello di tenere i soldati svegli e pronti al combattimento, non certo di assicurare loro un buon riposo notturno. Il risultato è che la lotta contro l'insonnia è lasciata perlopiù all'iniziativa delle aziende farmaceutiche e dei centri per la cura dei disturbi del sonno.

Lo sleep medicine center di Stanford, fondato nel 1970, è stata la prima struttura dedicata al problema dell'insonnia negli Stati Uniti, ed è ancora oggi una delle più autorevoli. Il centro visita più di 10 mila pazienti all'anno e ogni anno conduce più di 3.000 monitoraggi notturni del sonno. Le 18 stanze destinate ai pazienti hanno un aspetto accogliente, con letti morbidi e confortevoli. Le apparecchiature per il monitoraggio sono nascoste negli arredi.

Il principale strumento diagnostico è il polisonnogramma, e l'elemento più importante del polisonnogramma è l'elettroencefalografo (Eeg), che registra l'attività bioelettrica del cervello dei pazienti mentre dormono. Quando ci addormentiamo, l'attività del nostro cervello rallenta, e il suo tracciato elettrico muta da onde brevi e frastagliate a onde più lunghe e morbide, come il moto ondoso del mare che si appiana man mano che ci si allontana dalla costa. Nel cervello queste onde morbide sono interrotte da una ripresa dell'attività mentale eccitata tipica della fase Rem, quella in cui (per ragioni ignote) svolgiamo quasi tutta la nostra attività onirica.       

Mentre l'Eeg registra quest'attività, il polisonnogramma misura temperatura, attività muscolare, movimento oculare, ritmi cardiaci e respiro. Poi si analizzano i dati in cerca di segnali di sonno anormale o risvegli frequenti: chi soffre di narcolessia, ad esempio, piomba dallo stato di veglia alla fase Rem senza passaggi intermedi. Il malato di insonnia familiare fatale, invece, non riesce mai ad andare oltre le prime fasi del sonno, e la sua temperatura corporea si alza e si abbassa bruscamente.

Iff e narcolessia non possono essere diagnosticate senza l'Eeg e altri strumenti di monitoraggio. Ma Clete Kushida, il direttore della clinica, mi dice che il più delle volte riesce a individuare i problemi del sonno dei pazienti già al primo colloquio: ci sono quelli che non riescono a tenere gli occhi aperti, e quelli che non parlano d'altro che della loro stanchezza ma non riescono neppure ad appisolarsi. I primi spesso soffrono di apnee notturne, gli altri di quella che Kushida chiama "vera insonnia".

In chi è affetto da apnee ostruttive notturne, il rilassamento muscolare che sopraggiunge con il sonno fa chiudere il tessuto molle della gola e dell'esofago, ostruendo il passaggio dell'aria. Quando il cervello realizza che non sta più ricevendo ossigeno, manda al corpo un segnale d'emergenza per farlo risvegliare. Il paziente si sveglia, prende fiato, il cervello viene ossigenato, e si riaddormenta. Per chi soffre di apnee, il sonno notturno diventa in effetti una successione di mini-pisolini. Le apnee notturne sono la voce più cospicua del business legato al sonno. John Winkelman, del Brigham and Women's Hospital, afferma che il disturbo viene diagnosticato a due terzi dei pazienti esaminati presso il suo centro.

Quello delle apnee notturne è un problema serio, che fa aumentare il rischio di attacchi di cuore e di ictus cerebrale. Ma è solo indirettamente una malattia del sonno. I veri malati di insonnia - ai quali viene diagnosticata quella che alcuni specialisti chiamano insonnia psicofisiologica - sono persone che, per motivi ignoti, o non si addormentano o non riescono a restare addormentate. Si svegliano e non si sentono riposate. Vanno a letto ma il loro cervello continua a rullare. Questo gruppo costituisce circa il 25 per cento dei pazienti esaminati nelle cliniche del sonno.

Mentre le apnee si possono curare con uno strumento che forza l'aria nella gola del paziente addormentato per tenergli aperte le vie respiratorie, la cura dell'insonnia classica non è così semplice. L'agopuntura può giovare: nella medicina asiatica viene usata da tempo a tale scopo, ed è attualmente studiata dal centro per i disturbi del sonno dell'Università di Pittsburgh.

Di solito l'insonnia psicofisiologica viene curata in due fasi. Nella prima si utilizzano i sonniferi, che hanno quasi tutti l'effetto di aumentare l'attività del Gaba, un neurotrasmettitore che inibisce il livello generale di eccitazione e lo stato di vigilanza del corpo. Benché meno dannosi di un tempo, i sonniferi possono creare dipendenza. Molti di coloro che ne fanno uso lamentano che il sonno indotto dai farmaci sembra diverso, e che al risveglio ci si sente come dopo una sbornia.

"I sonniferi non sono un modo naturale di dormire", conferma Charles Czeisler dell'Harvard Work Hours, Health and Safety Group. Anzi, in prospettiva, possono peggiorare il problema, provocando la cosiddetta insonnia di rimbalzo.

La seconda fase del trattamento dei malati di insonnia è la terapia cognitivo-comportamentale (Tcc). In questa terapia, uno psicologo specializzato insegna al paziente a pensare al proprio problema come a qualcosa di gestibile, persino di risolvibile (è la parte cognitiva) e a praticare una buona "igiene del sonno". Questa consiste perlopiù in una serie di pratiche ben collaudate, come dormire in una stanza buia, andare a letto solo quando si ha sonno, e non fare esercizio fisico prima di andare a dormire. Alcune ricerche hanno dimostrato che la Tcc è più efficace dei sonniferi nel trattamento dell'insonnia cronica, ma molti di coloro che ne soffrono non ne sono convinti.

Winkelman è convinto che la Tcc aiuti più certi tipi di malati di insonnia rispetto ad altri. L'insonnia comprende una gran varietà di condizioni: tra la Iff, che è estremamente rara, e le apnee notturne, che sono invece molto comuni, sono stati individuati quasi 90 disturbi del sonno, senza contare la miriade di motivi, più difficili da catalogare, per i quali le persone non riescono a dormire.

Alcuni soffrono della sindrome delle gambe senza riposo, un grave senso di insofferenza delle gambe che impedisce di prendere sonno, altri del disturbo da movimento periodico degli arti, che produce un involontario scalciare durante il sonno. I narcolettici spesso hanno difficoltà sia a dormire che a stare svegli. Poi ci sono le persone che non riescono a dormire perché sono depresse, e quelle che sono depresse perché non riescono a dormire.

C'è chi ha problemi ad addormentarsi per via della demenza o del morbo di Alzheimer, donne che dormono male durante il ciclo mestruale, altre durante la menopausa. Gli anziani in genere dormono meno bene dei giovani. Altre restano sveglie perché si preoccupano per il lavoro o temono di perderlo, un problema particolarmente sentito in periodi di crisi come quello attuale.

Di tutti questi insonni, quelli che non dormono per cause fisiche, probabilmente per eccesso o mancanza di vari neurotrasmettitori, sono quelli che rispondono meno alla Tcc. Eppure, la terapia cognitivo-comportamentale viene proposta come possibile cura per quasi tutti questi disturbi. Forse questo accade perché per molto tempo il problema dell'insonnia è stato soprattutto di competenza degli psicologi. Per loro, l'insonnia è quasi sempre causata da qualcosa di trattabile con i loro strumenti, come l'ansia o la depressione.

La Tcc chiede al paziente cosa c'è di sbagliato nel suo comportamento, non nel suo corpo. Winkelman vorrebbe invece che i due aspetti, quello fisico e quello mentale, venissero considerati assieme. "Il sonno è straordinariamente complicato", spiega. "Perché escludere che ci sia anche qualcosa che non va nei nostri circuiti?".

Se non riusciamo a dormire, forse è perché abbiamo dimenticato come farlo. In passato si dormiva in modo diverso, si andava a letto al tramonto e ci si alzava all'alba. Nei mesi invernali, quando c'era molto tempo per riposare, è probabile che i nostri antenati spezzassero il sonno, dormendo a più riprese. Nei paesi in via di sviluppo c'è ancora chi fa così. Si dorme in gruppi e, di tanto in tanto, nel corso della notte, ci si alza. C'è chi dorme all'aperto, dove fa meno caldo e l'effetto della luce solare sul ritmo circadiano è più diretto.

Nel 2002, Carol Worthman e Melissa Melby, della Emory University, hanno pubblicato una ricerca comparata sui diversi modi di dormire nelle diverse culture, e hanno osservato che tra i gruppi sociali dediti esclusivamente alla ricerca del cibo, come i !Kung e gli Efe, "i confini tra sonno e veglia sono molto fluidi". Non esiste un orario fisso per andare a dormire, e nessuno dice all'altro quando farlo. Chi dorme si alza quando il suo riposo è interrotto da una conversazione o un'esecuzione musicale che lo interessa, e alla quale può partecipare per poi tornare a dormire.

Nei paesi sviluppati nessuno dorme più così, perlomeno non di proposito. Andiamo a letto a un'ora più o meno prefissata, e dormiamo soli o con la persona con cui viviamo su morbidi materassi rivestiti da lenzuola e coperte. Oggi, rispetto a un secolo fa, si dorme in media circa un'ora e mezzo in meno a notte. Forse l'epidemia di insonnia che ci affligge dipende dal non voler prestare attenzione al nostro orologio biologico. I ritmi naturali del sonno degli adolescenti richiederebbero un risveglio in tarda mattinata, e invece eccoli lì, tutti a scuola alle 8.00 del mattino. L'operaio che fa il turno di notte e dorme al mattino va contro i ritmi ancestrali del suo corpo, che gli impongono di svegliarsi per cacciare o procurare cibo quando il cielo è inondato di luce.

È a nostro rischio e pericolo che combattiamo contro questi ritmi. A febbraio del 2009 un aereo in volo da Newark a Buffalo si è schiantato uccidendo tutti i 49 passeggeri a bordo e una persona che si trovava sul luogo dell'impatto. Nella giornata precedente il disastro, il copilota, e probabilmente anche il pilota, avevano dormito poco. Il National Transportation Safety Board è giunto alla conclusione che il loro rendimento "è stato probabilmente compromesso dalla stanchezza". Questo genere di notizie fa imbestialire Charles Czeisler: restare svegli per 24 ore, spiega, o fare solo cinque ore di sonno a notte per una settimana, equivale ad avere nel sangue un tasso alcolico pari allo 0,1 per cento. Eppure la moderna etica aziendale esalta simili comportamenti.

Dal 2004, Czeisler ha pubblicato su alcune riviste mediche una serie di rapporti basati su uno studio condotto dal suo gruppo di ricerca su 2.700 medici tirocinanti. Due volte a settimana questi giovani, uomini e donne, svolgono un turno di lavoro che dura 30 ore. La ricerca di Czeisler ha messo in luce il rischio, notevolmente alto, per la salute pubblica che questa privazione del sonno comporta. "Un tirocinante su cinque ha ammesso di aver compiuto per stanchezza un errore che ha danneggiato un paziente", racconta Czeisler. "E uno su 20 ha ammesso di aver compiuto, sempre per stanchezza, un errore che ha causato la morte di un paziente".

Quando Czeisler ha pubblicato questi dati, si aspettava che gli ospedali lo ringraziassero. Invece in molti hanno assunto una posizione difensiva. Czeisler pensa che non cambierà nulla finché i datori di lavoro non cominceranno a prendere sul serio i problemi legati all'insonnia e alla privazione del sonno. "Un giorno questo sistema sarà considerato incivile".

E ora parliamo della siesta. Il tradizionale riposo pomeridiano corrisponde a un naturale rallentamento postprandiale dei nostri ritmi circadiani, e alcuni studi hanno dimostrato che chi dorme un po' il pomeriggio è in genere più produttivo e forse meno esposto al rischio di cardiopatie mortali. A rendere famosa la siesta sono stati gli spagnoli, che però, sfortunatamente, non vivono più così vicini al posto di lavoro da potersi permettere di andare a casa a schiacciare un pisolino. Alcuni di loro invece impiegano la pausa pomeridiana per intrattenersi in interminabili pranzi al ristorante con amici e colleghi. Dopo aver trascorso due ore attorno a un tavolo, i lavoratori spagnoli sono costretti a lavorare fino alle sette o le otto della sera. E anche dopo, non tornano sempre a casa, ma vanno a bere o a cenare fuori.

Negli ultimi tempi gli spagnoli hanno cominciato a prendere sul serio il problema della privazione del sonno. Oggi ad esempio la polizia chiede ai guidatori coinvolti in gravi incidenti stradali quanto avevano dormito la notte prima, e il governo ha di recente imposto ai lavoratori statali turni di lavoro più brevi per cercare di farli rientrare a casa prima.

Ciò che ha indotto la Spagna a prendere questo genere di provvedimenti non è stato tanto il tasso di frequenza degli incidenti (fra i più alti d'Europa) quanto il ristagno produttivo del paese. Gli spagnoli passano più tempo degli altri al lavoro, ma la loro produttività è inferiore a quella di quasi tutti i loro vicini europei. "Una cosa è accumulare ore sul cartellino, un'altra svolgere il proprio lavoro", ha ammonito dalle pagine di un quotidiano madrileno Ignacio Buqueras y Bach, l'uomo d'affari spagnolo che guida il tentativo di mandare i suoi connazionali a letto prima. "Ogni tanto dobbiamo chiudere gli occhi", dice Buqueras, "non siamo mica macchine".

Nel 2006 una commissione formata da Buqueras è entrata a far parte del governo spagnolo. Qualche tempo fa ho avuto l'opportunità di assistere a un incontro della commissione nell'edificio annesso al Congreso de los Diputados, la camera bassa spagnola. Si parlava di incidenti provocati da lavoratori esausti, delle donne spagnole estenuate da lunghe ore di lavoro e faccende domestiche, e di bambini privati delle necessarie 10-12 ore di sonno. Ai membri della commissione veniva chiesto di contattare le reti televisive per chiedere di anticipare il palinsesto di prima serata.

Buqueras cercava di tenere alto il ritmo del dibattito, invitando gli oratori alla brevità. Ma le luci erano basse, faceva caldo, e tra gli astanti ha iniziato a diffondersi un certo torpore. Le teste si accasciavano sui petti, subito rialzate nel tentativo di resistere, le palpebre si facevano sempre più pesanti, mentre in sala si cominciava a scontare il debito di sonno di un'intera nazione.
 
 
di D.T. Max - Da National Geographic Italia, maggio 2010